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Osservatorio italiano sul trust

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Di recente, la giurisprudenza italiana ha reso alcune decisioni in materia di trust, che coprono i principali aspetti dell’istituto:A) Effetti del trust;

B) Profili fiscali;

C) “Sham trust”;

D) Appropriazione indebita commessa dal trustee.

 

  1. A) Effetti del trust.

La Cassazione (Prima Sezione Civile, sentenza 20 febbraio 2015, n.3456) ha innanzitutto ribadito il principio «secondo cui il trust non è un ente dotato di personalità giuridica, ma un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al trustee, che è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi non quale legale rappresentante, ma come colui che dispone del diritto”. Di conseguenza, in tale sentenza la Suprema Corte ha concluso che “l’effetto proprio del trust non è quello di dare vita ad un nuovo soggetto di diritto, ma quello di istituire un patrimonio destinato ad un fine prestabilito».

In senso conforme anche la Sezione Tributaria della Cassazione (ordinanza del 25 febbraio 2015, n.3886), dove i giudici di legittimità hanno ribadito che «uno dei tratti tipologicamente caratteristici, ossia il trasferimento a terzi da parte del settlor dei beni costituiti in trust, al fine del conseguimento dell’effetto, con carattere reale, di destinazione del bene alla soddisfazione dell’interesse programmato. Conferendo beni in trust, difatti, il disponente mira a modificare il risultato finale del negozio esterno di attribuzione patrimoniale, mediante l’obbligo assunto dal trustee d’imprimere a quanto trasferito la destinazione finale voluta.

Conformemente alla definizione di trust, allora (in base all’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, ratificata con L. 16 ottobre 1989, n. 364, secondo cui per trust “si intendono i rapporti giuridici istituiti… qualora dei beni siano posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse del beneficiario”), la causa del relativo negozio sta nella conformazione funzionalmente orientata della proprietà.

Sul punto, la Corte (Cass. 9 maggio 2014, n. 10105) ha ritenuto che, in base all’art. 2 della Convenzione, lo scopo caratteristico del trust, che ha identificato con quello di costituire una separazione patrimoniale in vista del soddisfacimento di un interesse del beneficiario o del perseguimento di un fine dato, è conseguito mediante la separazione dei beni dal restante patrimonio del disponente e la loro intestazione ad altro soggetto, parimenti in modo separato dal patrimonio di quest’ultimo. E, in maniera ancora più eloquente, si è sancito che “presupposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto è che il detto disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive.

Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio” (Cass. pen., sez. 5^, 30 marzo 2011, n. 13276, Orsi; conforme, sez, 6^, 27 febbraio 2014, n. 21621, Soc. Fravesa). Difatti, l’art. 2, comma 2, lett. b), della Convenzione espressamente dispone che “i beni in trust sono intestati al trustee o ad un altro soggetto per conto del trustee”; e che il trust postuli l’alienazione dei beni del disponente emerge chiaramente dall’art. 2, comma 3, a norma del quale “il fatto che il disponente conservi alcuni diritti e facoltà o che il trustee abbia alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust”: il diritto convenzionale, dunque, ammette, in astratto, che possano residuare in capo al settlor “alcuni diritti e facoltà”, postulando, in concreto, che il trustee o l’altro soggetto per conto di questo siano terzi rispetto al disponente».

  1. B) Profili fiscali del trust.

Stabilito quanto sopra in via di principio, nel caso esaminato da quest’ultima sentenza la Cassazione ha poi esaminato i profili fiscali del trust, ritenendo che la sua costituzione – a prescindere dalla legge a cui il trust sia sottoposto per volontà del settlor – venga gravata «non soltanto dell’imposta sulle successioni e donazioni, ma anche ipotecaria e catastale, in misura proporzionale, come stabilito, rispettivamente, dall’art. 2, comma 2, e dal D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, art. 10».

Ciò quando nel trust vengono conferiti beni immobili siti in Italia, i quali vengono assoggettati all’imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione.

La Sezione Tributaria è pervenuta a tale risultato partendo con l’osservare che «con disposizione innovativa, il D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, come convertito, prescrive che “è istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001, fatto salvo quanto previsto dai commi da 48 a 54”.

Il tenore della norma evidenzia che l’imposta è istituita non già sui trasferimenti di beni e diritti a causa della costituzione di vincoli di destinazione, come, invece, accade per le successioni e le donazioni, in relazione alle quali è espressamente evocato il nesso causale: l’imposta è istituita direttamente, ed in sé, sulla costituzione dei vincoli.

Vincoli, che designano non negozi, bensì l’effetto giuridico di destinazione, mediante il quale si dispone, ossia si pone fuori da sé (e non necessariamente in favore di altri da sé) un bene, orientandone i diritti dominicali al perseguimento degli obiettivi voluti: alla disposizione non è coessenziale l’attribuzione a terzi, in quanto merce la destinazione si modula e non trasferisce il diritto.

L’imposta sulla costituzione di vincolo di destinazione è un’imposta nuova, accomunata solo per assonanza alla gratuità delle attribuzioni liberali, altrimenti gratuite e successorie; essa riceve disciplina mediante un rinvio, di natura recettizio – materiale, alle disposizioni del decreto legislativo 346/90 (in quanto compatibili: D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 50, come convertito), ma conserva connotati peculiari e disomogenei rispetto a quelli dell’imposta classica sulle successioni e sulle donazioni.

Ciò in quanto nell’imposta in esame, a differenza che in quella tradizionale, il presupposto impositivo è correlato alla predisposizione del programma di funzionalizzazione del diritto al perseguimento degli obiettivi voluti; là dove l’oggetto consiste nel valore dell’utilità della quale il disponente, stabilendo che sia sottratta all’ordinario esercizio delle proprie facoltà proprietarie, finisce con l’impoverirsi.

Se questa imposta abbisognasse del trasferimento e, quindi, dell’arricchimento, essa sarebbe del tutto superflua, risultando sufficiente quella classica sulle successioni e sulle donazioni, nelle quali il presupposto d’imposta è, giustappunto, il trasferimento, quantunque condizionato o a termine, dell’utilità economica ad un beneficiario: si prospetterebbe, in definitiva, l’interpretatio abrogans della disposizione in questione.

…. con riguardo all’imposta in esame, non rileva affatto la mancanza di arricchimento, giacché il contenuto patrimoniale referente di capacità contributiva è ragguagliato all’utilità economica, della quale il costituente, destinando, dispone.

Visto che il referente assunto dal legislatore è l’utilità economica e che questa utilità è destinata ad altri, il peso del prelievo coerentemente va a gravare sull’utilità e, in definitiva, sul beneficiario finale, al quale essa è destinata a pervenire.

Il rilievo della capacità economica, del resto, è correlato al contenuto patrimoniale di atti o fatti, non già al trasferimento attuale di diritti: la capacità contributiva, ha chiarito la Consulta, è da intendere come attitudine ad eseguire la prestazione imposta, correlata non già alla concreta situazione del singolo contribuente, bensì al presupposto economico al quale l’obbligazione è correlata (Corte Cost. 20 luglio 1994, n. 315), di modo che “è sufficiente che vi sia un collegamento tra prestazione imposta e presupposti economici presi in considerazione” (Corte cost. 21 maggio 2001, n. 155). Di qui altresì la non irragionevolezza della disposizione.

Ciò posto, il legislatore, evocando soltanto l’effetto, ha inequivocabilmente attratto nell’area applicativa della norma tutti i regolamenti capaci di produrlo.

Tra questi, vanno annoverati anche gli atti di destinazione contemplati dall’art. 2645 ter c.c., che, sebbene sia precipuamente volto a disciplinare la pubblicità dell’effetto destinatorio e gli effetti – specialmente di opponibilità ai terzi – da questa derivanti, finisce col delineare un atto con effetto tipico, reale, perché inerente alla qualità del bene che ne è oggetto, sia pure con contenuto atipico purchè rispondente ad interessi meritevoli di tutela, assurgendo per questo verso a norma sulla fattispecie.

La norma risponde difatti all’esigenza di rendere tipica la volontà destinatoria; se così non fosse, essa sarebbe inutile, essendo già consentito dal principio di libertà, proprietaria e negoziale, di fare l’uso che si crede dei propri beni e, quindi, anche di impiegarli per determinate finalità.

E’, questa, la situazione che ricorre nella fattispecie in esame, in cui non si è prodotto effetto traslativo alcuno, ma in cui i disponenti, nel regolamentare i propri interessi con effetti assimilabili a quelli di un fondo patrimoniale, hanno impresso, come effetto immediato e diretto, vincoli temporanei al libero esercizio dei propri stessi diritti sui beni immobili in oggetto.

L’effetto immediato e diretto della previsione del vincolo di destinazione si è prodotto nella sfera giuridica dei settlors, che sono rimasti proprietari dei beni e che giustappunto merce il vincolo su di essi impresso sono riusciti a conseguire gli effetti voluti».

  1. C) “Sham trust”.

                Già nella citata ordinanza della Sezione Tributaria la Cassazione ha evidenziato la nullità del cosiddetto “sham trust”, ravvisabile quanto manca la reale perdita del controllo dei beni da parte del disponente.

                Tale principio era stato già ripetutamente espresso dalle Sezioni Penali della Cassazione.

                Ad esempio, la Quinta Sezionale Penale della Cassazione (sentenza del 29 settembre 2014, n.40286), ha ritenuto legittimo il sequestro conservativo dei beni conferiti in un trust, avendo ritenuto che i beni aggrediti con la misura cautelare fossero solo fittiziamente intestati a terzi, e cioè al trustee. La Corte è addivenuta a tale decisone in quanto il settlor «al di là delle forme, continua di fatto ad amministrare i beni di cui si è apparentemente spogliato, posto che “ogni atto di gestione è condizionato dalla volontà del garante che, a sua volta, è nominato dal beneficiario, ovvero l’Associazione Antonio Pascariello Onlus la quale, evidentemente, altro non è se non una mera fiduciaria dell’imputato”. Ineccepibile, pertanto, è la conclusione del Tribunale, secondo cui la costituzione del trust “appare dunque un mero espediente per creare un diaframma tra patrimonio personale e proprietà costituita in trust, con evidente finalità elusiva delle ragioni creditorie di terzi”».

                Detto sequestro era stato adottato nell’ambito di una indagine concernente il fallimento di una società dichiarato dal tribunale di Milano l’1 ottobre 2009.

                Conforme la coeva pronuncia della medesima sezione (sentenza del 7 novembre 2014, n.46137), ove è stata riconosciuta la legittimità di un sequestro conservativo sui beni conferiti in un trust, provvedimento adottato nel contesto di procedimento penale promosso avverso il settlor, indagato per i reati di concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione ad operazioni dolose, concorso in bancarotta fraudolenta documentale, concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, contestati in relazione al fallimento di alcune società, il cui fallimento era stato dichiarato il 10/2/2012, nonché per il reato di calunnia.

                Anche in questo caso, il trust è stato considerato come mero espediente per creare un diaframma tra patrimonio personale e proprietà costituita in trust, con evidente finalità elusiva delle ragioni creditorie di terzi, comprese quelle erariali.

                Ciò in quanto il settlor non aveva di fatto «perso la disponibilità di quanto conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive. Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio».

                Nella fattispecie, la mancanza di tale effetto era stata ricondotta alla seguenti circostanze, accertate nelle fasi processuali di merito:

  1. l’indagato e la sua madre assumevano la qualifica di settlor (disponenti) e di trustee (amministratori);
  2. la costituzione del trust avveniva in un contesto temporale in cui le società fallite, delle quali l’indagato era amministratore, si trovavano in una situazione di dissesto, occultato dallo stesso indagato, in concorso con altre persone, in primo luogo con il figlio;
  3. i beneficiari del trust venivano indicati nella famiglia dell’indagato e della propria madre, anche se i suoi componenti risiedevano in luoghi diversi, e dei loro discendenti in linea retta;
  4. la durata del trust era determinata a partire da “oggi (data della costituzione del trust, avvenuta nell’anno 2008) fino alla morte di tutti i beneficiari nominati con il presente atto istitutivo e, comunque, per un periodo non superiore a cinquanta anni da oggi, ovvero se antecedente, la durata massima prevista dalla legge regolatrice”.
  5. i beni immobili siti in Italia, oggetto di sequestro nell’anno 2014, erano stati ceduti nel 2008 al trust dai suoi settlors;
  6. negli ultimi giorni dell’anno 2012 il trust veniva trasferito in Romania, nella provincia di Costanza.

Nello stesso senso anche la Sesta Sezione Penale (sentenza del 27 maggio 2014, n.21621), la quale ha parimenti confermato che «sono assoggettabili al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente beni rientranti nella disponibilità dell’indagato, ancorché conferiti in trust, che l’indagato continui ad amministrare conservandone la piena disponibilità».

La sentenza in questione è stata resa nei confronti di un trust ove era confluita una società a responsabilità limitata, quest’ultima oggetto di sequestro «sul presupposto che la stessa si trovasse al vertice di un cartello di imprese che gestiscono la totalità degli appalti pubblici in un determinato territorio italiano, rappresentando una “figura cardine per gli affari economici della cosca mafiosa lì operante”, sulla scorta delle direttive impartite dalla figura apicale del sodalizio», il quale per tali ragioni influiva su settlor e trustee, cui aveva pure trasferito le quote di siffatta società prima che la stessa venisse segregata nel trust.

Nella fattispecie la Cassazione ha avallato l’operato del Tribunale che aveva ravvisato «la presenza di un persistente collegamento fra il trust in tal guisa costituito e gli originari disponenti e titolari della società che in esso risulta esser stata conferita» e, pertanto, aveva disposto il sequestro di quest’ultima.

Secondo la Cassazione, detto collegamento viene legittimamente ravvisato in presenza di una serie di dati sintomatici, segnatamente rivelati – in difetto di specifici elementi fattuali di segno contrario – dalla coincidenza fra beneficiari e disponenti del trust, dalla comunanza di interessi economici con società riconducibili al precedente amministratore unico della società a responsabilità limitata sequestrata, dalla continuità del controllo attraverso lo schermo di un rapporto lavorativo tra settlor e detta società e dalla presenza dello stesso settlor fra i beneficiari del trust.

Ancor più di recente, la Terza Sezione Penale della Cassazione (sentenza del 10 febbraio 2015, n.5929) ha ammesso la legittimità di un sequestro preventivo per equivalente sui beni di un trust, funzionale alla loro confisca (di cui all’art. 322 ter c.p.), in quanto il Tribunale del riesame competente aveva «accertato che i poteri, conferiti ai guardiani (rappresentati dagli indagati, accusati di evasione fiscale) inficiavano la segregazione dei beni. Dall’atto istitutivo emergeva, infatti, lo svuotamento di poteri del trustee, che, per determinati atti gestionali, era subordinato al parere vincolante dei guardiani» stessi, i quali nella fattispecie avevano continuato ad esercitare sui beni in questione i poteri del pieno proprietario.

In effetti, tutte le precedenti decisioni si richiamano ai principi già in precedenza sanciti dalla Cassazione (Quinta Sezione Penale, sentenza del 24 gennaio 2011, n.13276), la quale aveva all’epoca stabilito che i beni conferiti in un trust possono essere sequestrati quando ci si trovi in presenza di situazione di mera apparenza per avere il conferente conservata l’amministrazione e la piena disponibilità degli stessi.

  1. D) Appropriazione indebita commessa dal trustee.

                Commette tale reato il trustee che avvia una serie di operazioni giuridiche volte a consentirgli di appropriarsi – violando l’atto costitutivo del trust – della liquidità presente sul conto del trust stesso.

                Nella fattispecie il trustee aveva destinato a sé stesso il trasferimento della liquidità di una polizza di diritto lussemburghese, aveva costituito una società svizzera nella quale stava tentando di far confluire le somme liquide che aveva già depositato nella polizza suddetta e stava cercando di liquidare un immobile, destinando alle istituzioni oncologiche beneficiane del trust solo una minima parte degli importi, il tutto senza avere preventivamente contattato il guardiano del trust.

                Richiamando a sua volta una decisione assunta dalle Sezioni Civili (la sentenza 10105/2014, sopra ricordata), la Seconda Sezione Penale (sentenza del 3 dicembre 2014, n.50672) ha ravvisato sussistere gli estremi dell’appropriazione indebita in siffatta condotta del trustee.

                I giudici di legittimità hanno focalizzato la loro attenzione sulla circostanza che il settlor «con la costituzione del trust, proprio in ragione dello scopo cui è destinato il complesso dei beni e rapporti giuridici, ne perde subito la disponibilità, potendo essergli riservati, nel regolamento del trust, solo poteri circoscritti e per lo più di controllo e, per la stessa ragione, il trustee ne acquista la formale disponibilità al fine di meglio adempiere allo scopo.

Questo schema di trust, per come riconosciuto e veicolato nel nostro ordinamento dalla giurisprudenza, mutua profili sostanziali dallo schema anglosassone, quali l’autonomia del patrimonio conferito, il potere-dovere del trustee di amministrare, gestire o disporre dei beni del trust, con l’obbligo di rendere il conto; l’essere i beni del trust intestati al trustee, ma esclusi dal patrimonio di quest’ultimo, andando a formare una massa autonoma e distinta secondo uno schema di separazione patrimoniale perfetta, intesa come “incomunicabilità bidirezionale” tra il patrimonio separato e il patrimonio del soggetto che ne è titolare; caratteristica, questa, che deriva dall'”affidamento” del diritto al trustee, sulla base della fiducia ispiratrice del negozio.

Dalla fiducia deriva anche l’assenza di rapporti negoziali tra fiduciario e fiduciante e l’assoluta discrezionalità di gestione del fiduciario, determinata dalla mancanza di precetti dettagliati.

Per quello che qui interessa, sembra di poter affermare che, il riconoscimento di una intestazione meramente formale dei diritti al trustee, stempera i dubbi sulla configurabilità di un trust interno a causa delle caratteristiche dei nostri diritti reali; problematiche che, nella realtà concreta, perdono assai di mordente e rilevanza a fronte dell’incisività innovativa delle caratteristiche proprie del negozio in questione e dell’agilità decisionale e dispositiva, tesa al conseguimento dello scopo, consentita dalla particolare configurazione dei poteri del trustee.

Orbene, se tale è l’essenza e la funzione dello schema del “trust ” recepito nel nostro ordinamento, consegue che, anche ai fini dell’inquadramento della tutela penale, devono assumere rilevanza preminente, nell’interpretazione del negozio sia il vincolo di destinazione che grava sui beni (che, determinandone la funzione economico-sociale, ne impedisce la commistione con il patrimonio del trustee) sia l’esistenza di beneficiari del negozio fiduciario, a favore dei quali deve indirizzarsi tutta l’attività di gestione dei beni e rapporti, conferiti nel trust, dovendosi attribuire all’intestazione formale del diritto di proprietà al trustee la valenza di una proprietà temporale, sostanziata dal possesso del bene, sicuramente diversa da quella delineata nell’art. 832 c.c. e svincolata dal potere di disporre dei beni in misura piena ed esclusiva».

               In conclusione, viene allora a configurarsi il reato di appropriazione indebita di beni mobili quando quelli conferiti in trust vengono destinati «a finalità proprie del trustee e/o comunque a finalità diverse da quelle per realizzare le quali il trust è stato istituito concreta quella interversione del possesso in proprietà che costituisce l’essenza del delitto di cui all’art. 646 c.p..».

 Ermenegildo Appiano

Avvocato in Torino

 
 

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